Intestino irritabile, uno sguardo omico sul microbiota

La sindrome dell’intestino irritabile (IBS) determina una variazione sia nella composizione sia nella funzione dei batteri all’interno del tratto gastrointestinale. Attraverso l’analisi di dati di genomica e trascrittomica (dunque includendo anche l’mRNA) sono stati identificati alcuni metaboliti che incidono sugli equilibri del microbioma intestinale.

Nei processi patologici della sindrome dell’intestino irritabile gli zuccheri rivestono un ruolo essenziale, e per questo motivo diete con bassi livelli di zuccheri sono in grado di prevenire l’insorgenza dei sintomi e di migliorare la condizione dei pazienti che ne sono interessati.

La sindrome dell’intestino irritabile è un disturbo gastrointestinale molto comune, che negli Stati Uniti colpisce tra il 10% e il 15% della popolazione, con conseguenze negative sulla qualità della vita e sui processi infiammatori anche a livello sistemico. Di solito, la diagnosi viene effettuata sulla base dei sintomi, anche se le manifestazioni possono essere molto varie.

E se è già noto da tempo che la dieta, lo stile di vita e le abitudini quotidiane possono avere un ruolo decisivo nello sviluppo della patologia, un nuovo studio pubblicato sulla rivista Microbiome nel gennaio del 2023 ha aggiunto nuovi elementi. In particolare, sono stati indagati i campioni fecali di 495 persone (318 pazienti con IBS e 177 sani) per valutare i meccanismi target alla base della patologia. L’analisi dei metaboliti ha poi permesso di distinguere, con un buon livello di accuratezza, i sottotipi di IBS, ossia diarroica o con costipazione.

Le caratteristiche microbiche emerse spiegano l’importanza di una dieta povera di zuccheri, o che cerchi di ridurre al minimo la loro assunzione, per mantenere sotto controllo i sintomi correlati all’IBS.

Già numerosi studi passati avevano analizzato la composizione batterica intestinale, ma un’indagine omica, inclusiva di tutte le discipline biomolecolari, permette di avere un quadro più completo della malattia e favorire la ricerca di nuove terapie.

Fonte: https://microbiomejournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s40168-022-01450-5




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