Sindrome dell’intestino irritabile: dalla pancia al cervello

Per trattare questo disturbo complesso non bastano singoli farmaci, bisogna intervenire con approcci multidisciplinari capaci di integrare anche psiche e dieta.

È il disturbo dell’interazione intestino-cervello più diffuso a livello globale.
Si tratta della sindrome dell’intestino irritabile (IBS), che colpisce tra il 5% e il 10% della popolazione generale. Per decenni, questa sindrome è stata considerata un semplice disturbo della motilità intestinale, ma oggi sappiamo che si tratta di una malattia complessa che vede coinvolti tratto intestinale, cervello e microbiota.

Un team di ricerca statunitense ha condotto una review per approfondire in particolare gli aspetti neurobiologici di questo fastidioso disturbo, finora poco considerati. Il lavoro è stato pubblicato di recente sulla rivista Molecular Psychiatry del gruppo Nature.

Al momento, i criteri utilizzati per la diagnosi della sindrome dell’intestino irritabile tendono a considerare solo il dolore addominale ricorrente, associato ad alterazioni delle abitudini intestinali. La maggior parte dei pazienti riporta però condizioni psichiatriche associate, come ansia e depressione, insieme ad un disagio addominale non doloroso o ad altri sintomi correlati al dolore viscerale e somatico.

Nella loro esaustiva review, gli autori discutono gli studi più recenti che indagano le componenti chiave delle interazioni cervello-intestino-microbioma. Oltre a prendere in considerazione le alterazioni nel connettoma intestinale e nel sistema nervoso enterico, vengono prese in esame le disfunzioni funzionali e strutturali del cervello associate al disturbo, confrontandole con le presunte alterazioni cerebrali nei disturbi d’ansia.

Gli autori mettono in luce un aspetto interessante di questa patologia, evidenziato da studi clinici, preclinici e genetici. Le influenze ambientali (esposoma) vissute durante l’infanzia sembrano infatti modellare in modo significativo il fenotipo clinico specifico, sebbene sia documentata anche la presenza di geni di vulnerabilità.

Mayer e colleghi sottolineano infine come, in alcuni gruppi di pazienti, le terapie mirate al movimento intestinale e gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina possano essere utili. Ma evidenziano anche i limiti di un approccio così puntuale e riduzionistico.

Il modello della sindrome dell’intestino irritabile che emerge dalla loro review, in tutta la sua complessità, indica infatti come auspicabile un approccio terapeutico multidisciplinare e personalizzato.
Capace di integrare una rosa di interventi farmacologici, comportamentali e dietetici, armonizzandoli in modo sartoriale su ogni singolo paziente.


Fonte: https://www.nature.com/articles/s41380-023-01972-w



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