Alle sorgenti della febbre






























La febbre è una delle risposte del nostro corpo ad un'infiammazione, un fenomeno mediato dalle prostaglandine. Ed è proprio su queste sostanze che vanno ad agire i comuni anti-infiammatori in commercio. Ma ora una nuova scoperta getta luce sui meccanismi che stanno all'origine di questi processi, aprendo la strada a nuovi farmaci intelligenti, in grado, quando abbiamo un'infiammazione in corso, di eliminare solo i sintomi pericolosi.
Per il corpo infettato da agenti esterni, l'infiammazione è un processo generalmente positivo, anche se costellato da sintomi fastidiosi e che, in taluni casi, possono diventare anche pericolosi, come la febbre alta. Per far fronte a queste situazioni esistono i farmaci anti-infiammatori che però hanno un limite: agiscono inibendo tutti i fattori legati alla risposta infiammatoria, anche quelli positivi.

Per poter sviluppare medicine più intelligenti bisogna esplorare i meccanismi che portano all'infiammazione. Un grande passo avanti è stato fatto con uno studio firmato da David Engblom, il neurobiologo svedese che 11 anni fa aveva scoperto i meccanismi biochimici che stavano alla base della produzione di quelle prostaglandine che producono il rialzo della temperatura corporea.
La ricerca ha voluto cercare il luogo d'origine di questa classe di molecole. Esistevano tre teorie sulla questione: che si formassero nel sangue, in cellule immunitarie del cervello o nelle pareti dei vasi sanguigni del cervello (nella cosiddetta barriera emato-encefalica). Lo studio, pubblicato su The Journal of Neuroscience, ha confermato la terza teoria, osservando cosa accade su topi privi, proprio nei vasi sanguigni del loro cervello, degli enzimi specifici che catalizzano la produzione di prostaglandine. Una volta infettati con dei batteri, infatti, i topi non hanno avuto la febbre, ma nel loro corpo si sono sviluppati altri segni di infiammazione. La ricerca apre una nuova prospettiva: la possibiltà di produrre farmaci che riescano a discriminare i sintomi infiammatori, andando a colpire selettivamente delle molecole specifiche. "Forse potremmo voler inibire la perdita dell'appetito, conservando la febbre – ha spiegato Engblom - in caso di infezioni gravi, la febbre può essere una buona cosa".


Fonte: http://www.jneurosci.org/content/34/35/11684.short?sid=7430e955-4199-4f96-9581-85dceaba7bf5





La febbre è una delle risposte del nostro corpo ad un'infiammazione, un fenomeno mediato dalle prostaglandine. Ed è proprio su queste sostanze che vanno ad agire i comuni anti-infiammatori in commercio. Ma ora una nuova scoperta getta luce sui meccanismi che stanno all'origine di questi processi, aprendo la strada a nuovi farmaci intelligenti, in grado, quando abbiamo un'infiammazione in corso, di eliminare solo i sintomi pericolosi.

Per il corpo infettato da agenti esterni, l'infiammazione è un processo generalmente positivo, anche se costellato da sintomi fastidiosi e che, in taluni casi, possono diventare anche pericolosi, come la febbre alta. Per far fronte a queste situazioni esistono i farmaci anti-infiammatori che però hanno un limite: agiscono inibendo tutti i fattori legati alla risposta infiammatoria, anche quelli positivi.

Per poter sviluppare medicine più intelligenti bisogna esplorare i meccanismi che portano all'infiammazione. Un grande passo avanti è stato fatto con uno studio firmato da David Engblom, il neurobiologo svedese che 11 anni fa aveva scoperto i meccanismi biochimici che stavano alla base della produzione di quelle prostaglandine che producono il rialzo della temperatura corporea.
La ricerca ha voluto cercare il luogo d'origine di questa classe di molecole. Esistevano tre teorie sulla questione: che si formassero nel sangue, in cellule immunitarie del cervello o nelle pareti dei vasi sanguigni del cervello (nella cosiddetta barriera emato-encefalica). Lo studio, pubblicato su The Journal of Neuroscience, ha confermato la terza teoria, osservando cosa accade su topi privi, proprio nei vasi sanguigni del loro cervello, degli enzimi specifici che catalizzano la produzione di prostaglandine. Una volta infettati con dei batteri, infatti, i topi non hanno avuto la febbre, ma nel loro corpo si sono sviluppati altri segni di infiammazione. La ricerca apre una nuova prospettiva: la possibiltà di produrre farmaci che riescano a discriminare i sintomi infiammatori, andando a colpire selettivamente delle molecole specifiche. "Forse potremmo voler inibire la perdita dell'appetito, conservando la febbre – ha spiegato Engblom - in caso di infezioni gravi, la febbre può essere una buona cosa".


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